Il '900 è stato mia nonna, anzi mia
nonna bisa come si dice a Bologna cioè la mamma della mamma di mia
mamma.
Mia nonna è nata nel 1897 e morta a
fine 2000: è sopravvissuta alle due grandi guerre e alla famosa
epidemia di influenza “spagnola” del '18 che le lasciò giusto
una lieve alopecia di cui lei non si curò mai usando sempre
pettinini che sembravano stare su con lo sputo, visto che di capelli
praticamente non ne aveva più.
La nonna Lavinia in realtà si chiamava
Enrichetta; pare che Enrico e Lavinia fossero una coppia di
conoscenti davvero sfigata, perciò in loro onore le venne dato un
nome all'anagrafe e l'altro usato tutti i giorni, un po' come
chiamarsi Romea ufficialmente e Giulietta per gli amici.
Da piccola viveva a Cadriano dove il
padre faceva il mezzadro, alla domenica lo accompagnava sul carro a
portare il latte in città alle famiglie ricche di via Castiglione;
da ragazza poi batteva la canapa nei maceri con l'acqua fino alle
ginocchia ma forse le fece bene perché non si lamentò mai di nessun
dolore articolare.
Sposatasi si trasferì alla Bolognina
che ai quei tempi era ancora tutta campagna, andava a messa la
domenica e quando era ora di mettersi i vestiti estivi lo diceva il
prete dal pulpito.
Non credo sia mai neanche stata a Roma,
al massimo a Cereglio dove passò tutte le sue vacanze estive andando
a funghi per i bricchi, al ritorno stipava la macchina di chi
l'andava a recuperare di bottiglie d'acqua riempite alla famosa
sorgente omonima e di tonnellate di zuccherotti montanari che, nei
primi anni '70, sfamarono mio padre appena ventenne e i suoi amici in
tutti i loro viaggi, visto che ne mangi uno e sei sazio per giorni.
Mia nonna quando l'ho conosciuta io
aveva la pelle come carta vetrata, quello che le succedeva intorno
non intaccava mai il suo aplomb e la sua ironia, però una ruga si
aggiungeva sulla faccia, una macchia sulle mani o la schiena si
incurvava di un altro po': è morta ad angolo retto.
La sua filosofia di vita è sempre
stata “piutòst che gnint l'é méi piutòst” e con questa ha
attraversato imperterrita le guerre, le crisi economiche e politiche,
l'arrivo del riscaldamento in casa, del telefono e della lavatrice
che nel '58 spodestò la bugaderi, ovvero lo stanzino in cortile dove
si lavavano le lenzuola con la cenere in grossi tini.
Guardava sempre la televisione con aria
diffidente e i programmi li commentava al massimo con un “ban mo da
bon” o un “soccmel”.
Mia nonna è sempre stata socialista e
fino ai cent'anni è voluta andare a votare, peccato che ogni anno in
Italia si cambino nomi e simboli dei partiti, per un po' deve aver
comunque trovato il garofano poi chissà che ha votato; si narra che
una volta sia stata venti minuti in una cabina elettorale facendo
credere a tutti di essere morta sulla scheda ma in realtà stava
scrivendo a mano “partito socialista”.
Capiva l'italiano ma parlava
rigorosamente dialetto e soprattutto rispondeva spesso con
“aforismi” o “proverbi” di grande saggezza:
“Sai mamma che si è sposata la
figlia della Gina?”
“A n'é un badilaz c'an eva al so
mandgaz” (“ogni badile ha il suo manico”)
“Lavinia sai che la Maria è rimasta
vedova?”
“Tòt i marì ién bòn, i arpezzan
la laur piel con la tò” (Tutti i mariti sono buoni, rappezzano la
loro pelle con la tua)
E quando mio nonno tuonava “Ines in
tavola manca il sale” lei a bassa voce diceva:
“Pigrizia vut dal brod?” “Sì”
“Vat la tour” “A in voi piò”
(Pigrizia vuoi del brodo? Sì. Vattelo
a prendere. Non lo voglio più)
Una rivoluzione degli anni '80 che non
le è mai andata giù però è stato l'avvento della dieta
mediterranea e in particolare dell'uso dell'olio al posto del burro,
questo sì che chiaramente l'indignava; “sai che l'Amedea condisce
la pasta con l'olio?” diceva di sua nuora con tono schifato, chissà
come commenterebbe oggi la dieta vegana.
A questo proposito, per i suoi 80 anni
si era fatta regalare una batteria di tegami, di quelli belli
antiaderenti con le linee aerodinamiche; qualcuno osò commentare che
era un po' uno spreco e che non li avrebbe usati molto e lei si
divertì poi a leggerne i necrologi sul Carlino, come si è sempre
divertita ad affermare di aver seppellito non so quanti dei suoi
medici di base.
Già ultranovantenne cadde da una sedia
e si ruppe un braccio, mia mamma la portò al Pronto Soccorso del
Maggiore, appena rinnovato: mentre mia nonna si guardava intorno
nell'attesa dicendo “mo che bel sit”, il fiore all'occhiello
della sanità emiliana andava in tilt perché l'avveniristico sistema
computerizzato non concepiva 1897 come anno di nascita.
Alla fine degli anni '90, una delle
ultime volte che mia mamma l'accompagnò in Certosa, dove in fondo
mancava solo lei, uscendo la guardò e le disse: “E anc stavolta a
san vgnù fòra”.
(Scuola elementare di letteratura russa - 2° compito)
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